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La festa della gente di Montesardo nelle grotte del villaggio rupestre: Santo Stefano del Curano, melting-pot mediterraneo

LECCE – E’ la festa della gente di Montesardo (non erroneamente di Alessano, come si legge da qualche parte). E’ così sin dall’antichità. Fino al XVI secolo, la chiesetta sul piazzale aveva un prete, che si prendeva cura delle anime dei contadini e delle loro famiglie sparsi (per coltivare la vigna, l’uliveto, più tardi anche il tabacco) fra le masserie circostanti tra le grotte di Macurano, un antico trappìtu (frantoio) detto “della Baronessa” e la via che porta al favoloso mare di Novaglie: i nomi stessi svelano le contaminazioni con altri mondi, popoli e culture sedimentate nei secoli, e millenni: Sargirò, Padogna, Vicenzoni, dei Blevi, Santa Lucia, la Bianca, ecc.

E da secoli Santo Stefano protomartire, detto “del Curano” perchè la cappella sorge nel cuore dell’insediamento rupestre di Macurano, è festeggiato il lunedì successivo al Lunedì dell’Angelo. E’ una sorta di replica della Pasquetta, collegata all’idea della natura che si risveglia: come dicono i vecchi contadini “ogni terracàta se rinnova”.

Complesso di Macurano – grotte minori

Probabilmente la festa ha origini pagane e il culto del Santo è stato sovrapposto a un convivio dell’antica Montesardo (Mons Arduus, Trachion Oros, Trachina, qualcuno teorizza l’Hyria messapica) fondato essenzialmente sul cibo amato dalla gente al lavoro nei campi: vino (nella zona c’è un vecchio vitigno che dà il magnifico nettare degli dèi detto “della Parduìdda”) e carne di cavallo.

E’ una festa collegata alla storia di queste ultime, aspre propaggini delle Puglie e ai popoli che sono passati, dai Messapi ai Longobardi ai Turchi, in un’area solcata da sepolture: un pò più verso sud la zona si chiama ”Crucìcchie” e ancora più a sud, quasi verso l’incrocio Corsano-Gagliano, c’è “Acquasciudèi”, una pianura dove la leggenda vuole si sia svolta una battaglia campale in età feudale e la terra, a ogni aratura, disseppellisce armature, corazze, spade, ecc. Lo spirito è quindi quello dell’accoglienza, della convivialità, dell’integrazione, ed è più che mai attuale. Ed è rimasto tuttoggi. La mattina dal paese e dai centri limitrofi accorrono al mercato: bestie d’ogni specie, utensili, attrezzi agricoli, abbigliamento tipo spollànti (sfollati), o bbrei (ebrei), ecc. Verso le 10 il sacerdote (di Montesardo) celebra la messa nella cappella dove è affrescato il Santo che stringe in mano la palma del martirio.

Ai commercianti diciamo classici si sono aggiunti ormai da anni quelli magrebini, asiatici (Cinesi soprattutto), i neri con le loro maschere apotropaiche: un melting-pot di grande fascino espressione dei tempi. Per tutta la mattinata, in ogni anfratto si preparano i panini con i pezzetti di cavallo al sugo, anche piccante. Ma è dopo mezzogiorno che la festa cambia aspetto e i montesardesi (anticamente detti manciafucàzze) se ne appropriano del tutto. Nell’antichità, fino a tutto il Novecento, nel cuore della civiltà contadina, si continuava a mangiare, a bere e a stare insieme in tutta l’area di Macurano (2 km. quadrati), tant’è che a pomeriggio inoltrato, quando il giorno esausto sta per accasciarsi fra le braccia della sera, più brilli anzichenò, se ne tornavano a casa barcollanti, arrampicandosi come capre sù per la ripida salita, con i troppi menzu quintu bisbiglianti in corpo.

E oggi? Nel XXI secolo la festa ha cambiato faccia. Dal piazzale della cappella è tracimata nelle campagne circostanti, dove ognuno ha la sua pajàra (trullo a tolos). Seduti sotto l’ombra amica degli ulivi secolari, vecchi e giovani, donne e uomini, uniti in una socialità che rinnova i rapporti e li rafforza, si mangia la carne di cavallo fatta a pezzetti e le pietanze cucinate dalle donne del paese, portate nelle cisùre (campi), con i piatti e le posate di plastica. Inclusi sedani e finocchi. Ovviamente il vino scorre abbondante, anche se nei bicchieri di plastica. Dov’è che lo spirito della festa riemerge prepotente dal passato? Nell’accogliere i “furèsti” (forestieri) di passaggio, al di là della colore della pelle, credo religioso e posizione sociale, col più classico “Favorisci!”.

A Santo Stefano, a Montesardo, non si aggiunge un posto a tavola, ma uno più uno più uno all’infinito. E se per caso vi trovate a passare e vi favoriscono, che non vi venga in mente di fare i troppo educati, o peggio ancora gli schizzinosi e declinare l’invito: sarebbe l’offesa più grande per chi vi invita, e anche per Santo Stefano, il santo portato dalla nuova primavera per una socialità diversa, un modo di ritrovare vecchi e nuovi amici e di stare insieme, per lenire le fitte della solitudine cosmica portata dalla modernità, e dalle sue icone globali e relativizzanti.

Francesco Greco


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