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Tra frantoi, cripte e domus romane: i tesori di San Dana.

Tu non conosci il Sud” recita uno dei più famosi versi del grande Vittorio Bodini, poeta leccese che ebbe con il Salento un rapporto antitetico nel corso della sua vita. Dapprima una relazione equiparabile a due stessi poli di una calamita che si respingono fino al punto di non avvertirne più l’influenza reciproca. Quella distanza necessaria ad accendere la fiamma della nostalgia che condusse il poeta a rivalutare la terra che aveva quasi disprezzato fino a divenirne la dimora anche nella morte.

Quelle parole, per quanto scontate possano apparire, rivelano un’eccezionale verità: “Tu”, soggetto indefinito che ti senti preso in causa perché hai casualmente messo gli occhi su una poesia di uno dei tanti poeti italiani, e che per qualche motivo ti aggiri tra le strade del Salento, puoi asserire senza dubbio alcuno di conoscere il TUO sud? Di poter percorrere ad occhi chiusi ogni centimetro delle contrade che chiami casa, dove sei nato e dove, probabilmente, morirai?

San Dana, una minuscola frazione di Gagliano del Capo che raggiunge appena le duecento anime, potrebbe essere utilizzata come metro per saggiare la veridicità del verso bodiniano. Tra le sue stradine rurali è possibili ammirare, anche se minacciati dalla costruzione di un imponente viadotto tale da far impallidire al confronto anche una caotica metropoli del settentrione, degli autentici gioielli di architettura contadina, testimonianze della laboriosità dell’uomo meridionale.

Un enorme frantoio ipogeo, un residuo dell’intensa attività di produzione olearia del Salento che ha visto sorgere in ogni anfratto utile, in caverne e grotte naturali o scavate all’occorrenza dai maestri “zzoccaturi”, un attività talmente redditizia che ha contribuito per secoli a consolidare le fondamenta di una già solida economia, che ha visto sorgere a Gallipoli la borsa dell’olio e messo in contatto il Salento tutto con l’Europa dei potenti. Questa supremazia nel commercio dell’oro giallo è andata via via scemando con l’annessione del sud al neonato stato Italiano, quando molte delle attività commerciali e industriali vennero “reimpiantate” nei più “redditizi” circuiti del nord.

Interno frantoio ipogeo

All’interno di questo anziano patriarca, oggi totalmente abbandonato tra la vegetazione spontanea della macchia mediterranea, si possono ancora notare resti di macine, nicchie ricavate nelle pareti, pozzetti di decantazione dell’olio e vasche per la raccolta della sentina.

Poco distante una seconda struttura rurale apre la strada ad un antichissimo sentiero che si addentra in un uliveto e che lascia alla sua sinistra una bellissima aia recintata da mattoni calcarei, intorno alla quale è possibile notare ancora alcune incisioni per la canalizzazione dell’acqua. Più avanti, invece, seguendo l’atavico sentiero, si incontra una seconda cavità, adibita a disordinato deposito di attrezzi agricoli, di origine molto antica probabilmente ma, anche questa, utilizzata come frantoio ipogeo con tanto di fori per il travaso delle olive dall’alto.

Antica aia

Piccoli esempi dell’industriosità Salentina che sopravvivono ancora oggi a pochi passi dalla cripta di Sant’Apollonia, antico luogo di culto dall’origine ancora non definita e alla quale potrebbero essere collegati. I monaci basiliani, infatti, distribuivano la loro giornata in diversi ambienti adibiti al lavoro, alla preghiera e al riposo. Se fosse questo il caso i frantoi potevano sopperire alla compoenente lavorativa della regola basiliana, mentre la cripta a quella cultuale.

Grotta adibita a frantoio - deposito agricolo

Non molto distante vi sono inoltre i resti di una domus romana comprensiva di impianto termale scoperta negli anni ’70 del secolo scorso e soggetta ad indagine archeologica nel 2001 da ricercatori dell’ateneo leccese.

Ed ora dunque passeggero rispondi: Tu, conosci il sud?

Marco Piccinni


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