Il canale di San Vincenzo
Il faro bianco sullo sfondo, croci incise su pietre e pareti, antri piccoli e grandi, scavati e naturali. Il verde che inebria e acceca, l’acqua che scorre e purifica, il misticismo che sorge e non tramonta, non tramonta mai. Siamo nel canale di San Vincenzo.
Dalla strada provinciale che da Castrignano del Capo conduce al tacco d’Italia, una semplice, vecchia scala di pietra funge da tramite tra presente e passato per accompagnare l’uomo moderno, troppo spesso impegnato a districarsi nei meandri delle frenesia che ha fatto propria della sua vita, a instaurare un contatto con il passato. Fermo e immutabile, se non per la caducità del tempo che ne ha alterato forma e colori ma non il fascino di cui è intriso e che sembra vibrare per risonanza alle stimolazione dell’ambiente in cui è immerso.
Costituito da un canalone naturale dove si aprono una quarantina di cavità, forgiate in parte dalla natura e in parte dalla mano dell’uomo. Un vero e proprio villaggio rupestre con alcuni, quasi inverosimili, archetipi di case a corte. Decine di croci incise costituiscono gli unici “arredi”, rimasti a decoro di questi ambienti che sulle topografie si congiungono come punti di una costellazione nel firmamento terreno delle località Scaledde e Pennini. Nascoste dietro alberi di ulivo, mimetizzate nei costosi rocciosi se non per quelle che, da lontano, appaiono come delle macchie scure tradendo la presenza dell’ingresso in un antro.
Ogni cavità sembra guardarti allo stesso modo di come ti guardano le vecchiette da dietro le veneziane, ti fagocitano con lo sguardo. Ambienti piccoli, solitamente monolocali con sporadiche eccezioni a due “camere”, ad esclusione di una cavità naturale, profonda una 30ina di metri, ricca di nicchie e croci, dove un pipistrello solitario sembra volerne fare la guardia.
Nelle contrade limitrofe al canale, le pietre che compongono i muri chiedono di essere ascoltate, molte hanno delle croci incise e presentano forme regolari e modellate. Probabilmente un tempo erano parte di strutture ricettive per i pellegrini che da ogni parte d’Europa giungevano a Leuca, continuamente, per onorare l’invito di Papa Giulio I, formalizzato nell’agosto del 342, oltre che pulire la coscienza da quei peccati ai quali l’uomo non seppe e non saprà mai rinunciarvi. L’area del canale è compresa tra le ultime due tappe dell’antica via pellegrinare, tra la chiesa della Madonna delle Rasce e quel Santuario bianco, su uno delle due punte che animarono la leggenda di Leucasia.
Un piccolo ponte in cemento collega le due sponde del canale, nel quale scorrono le acque meteoriche. Importante elemento che ha influito indubbiamente sulla scelta del luogo come ideale per lo stanziamento umano. La vegetazione sembra volere fagocitare terrazzamenti, mura, nicchie e cripte, archi in pietra, pajare e cisterne.
In alcuni tratti fanno capolino importanti strumenti di altrettanto importanti attività, come dei fisculi, indispensabili nella produzione olearia di un tempo. In altri, invece, si impongono prepotentemente i segni della stupidità dell’uomo moderno, che non perde occasione per trasformare ogni anfratto in una discarica a cielo aperto.
Marco Piccinni