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Quell’estate che mia madre mi portò al mare

Racconto inedito di Francesco Greco

Mia madre era una ragazza bellissima. Aveva la pelle bianca come il latte, odorosa di ciclamino: un profumo naturale che si sparse nell’aria quando morì e stagnò per parecchi giorni nella casa e forse ancora impregna i muri di calce viva. Era ancora una ragazza. 

La sera che guardammo i fuochi di Sant’Antonio sulla liama (terrazza) della nostra grande casa col pergolato di uva Gerusalemme che mio padre aveva messo a dimora da bambino e che morì con lui, lei, occhi al cielo, non disse una parola: scendemmo le scale silenziosi quando furono finiti, io davanti, lei dietro, sovrappensiero, come tormentata da un pensiero ispido.

Per la prima volta la sentii triste e provai molto dolore, come un peso ingombrante sul cuore, però non dissi nulla. Lei capì la mia pena e a sua volta tacque. Mi stava dicendo addio, ma io non lo sapevo.

Mio padre mi aveva comprato un registratore e quando lei non ci fu più mi rimproverò, e l’ha fatto per tutta la vita, di non aver inciso la sua voce esile, sottile, con una nota gaia, infantile, spensierata: “Così ora me la sentivo…”, diceva triste anche lui.

Si sentiva perduto, non era più niente, non aveva più la forza per fare niente, era come un pupazzo di pezza senza canie (crusca). Lo trovavo sovrappensiero e mi confessò che andava al nostro campo a piangerla sotto gli ulivi. Forse avrei dovuto farlo a sua insaputa, ma mi sembrava sleale, come farle quasi violenza, e poi non sospettavo che era così grave, e forse nemmeno lei.

Antonietta aveva gli occhi acquamarina (che ho io), i lineamenti delicati, la bocca sottile, i capelli morbidi e scuri, le spalle larghe, le mani grandi, le dita sottili. Non so se questo ha a che fare con i suoi antenati. I miei cugini hanno scavato nell’albero genealogico, sostengono che sono imparentati alla lontana con gli Hohenstaufen.

Ogni volta che ci vediamo chiedo di spiegarmi per quali vie tortuose si arriva a Federico II partendo da una famiglia di contadini, di coloni, mezzadri, di cotimàri (lavoratori della terracotta), di trainièri (guidatori di carri agricoli): mio nonno, da cui ho preso il nome, aveva piedi enormi, gli stessi miei.
Rispondono che è complicato, che ci vuole tempo, magari un’altra volta, chissà. Così è una vita che si rimanda e ormai tutti accettiamo per fede la scoperta.

Come mia madre, che fu contadina sulle terre del poeta simbolista, il barone Girolamo Comi da Lucugnano, di cui mi raccontò infiniti culàcchi (novelle), che sarchiava il suo grano con la sarchialura (zappetta) gentile che ora uso io, potesse avere una goccia di sangue di Manfredi e Corradino non saprei dirlo. Però, molti anni dopo la morte (un primo maggio di sole sfolgorante), donna Annetta Ronzi mi chiamò nella sua cucina e mi disse:

Mia madre, donna Amelia, buonanima, diceva sempre che tua madre era una santa…”.

Anni prima mi aveva chiamato una delle sue amiche di chiesa, del secondo o terzo banco a destra dell’acquasantiera, donna Teresa Calignano, buonanima:

Tua madre era bella come la Madonna…”.

Mio padre mi ha ripetuto per una vita:

Quando me la presi (sposai), tua madre era civile (magra)…”.

E così rimase la ragazza dagli occhi preziosi.

In tutta la sua breve vita, non ho mai sentito Antonietta alzare la voce con nessuno. Si arrabbiava solo con le galline quando dopo aver razzolato nel giardino beccando vermi d’acqua, non volevano tornare al pollaio.

Mio padre ce l’aveva in pugno, lo comandava coi silenzi, con lo sguardo, con la presenza, l’ombra. Lui era gelosissimo, ma non dava a vederlo perché i greci sono fieri e orgogliosi e se alzavo la voce subito mi zittiva:

Non girarti più a tua madre come il mare di levante…”.

Il suo pudore lo metteva in soggezione. Quando si ammalò, accusando crampi, terribile fitte allo stomaco, esitò ad andare dal medico: non voleva essere guardata da occhi estranei, né eventualmente toccata. Dopo che tornò sentii dire che avevano trovato il suo stomaco “allungato”.

Tornato dal funerale, Cosimo affrontò il medico:
Io con te me la prendo… Se l’avessi mandata prima a fare gli accertamenti…”.
L’altro fu altrettanto secco:
E’ stata lei a venire tardi, Cosimo…”.

Papà poi mi disse che lei aveva preparato i panni della morte, stavano all’ultimo cassetto del comò.

Antonietta era una ragazza pulita e ordinata.

Mia madre era convincente. Aveva autorità senza che la cercasse. Nessuno metteva mai in discussione la sua parola, tutti facevano precisamente come diceva lei senza aver mai nulla da obiettare. Forse era il sorriso infantile, o la sua delicatezza che turbava, riduceva al silenzio. Se avesse detto “Andiamo al mare ad affogarci”, tutti l’avrebbero seguita, come se fosse stata la cosa più naturale e utile per tutti da fare.

Era la più piccola di 5 figli, due fratelli, tre sorelle.

Zia Addolorata era la maggiore e l’estate che scoprii il mare fu nella sua campagna fuori paese, fra Sant’Eufemia e la Cripta del Gonfalone, una cisura (campagna) detta “Jozza”. All’ombra di un maestoso gelso c’era un palune (grossa pila).

Entra, dai, questo è il mare…”, sorrise Antonietta. Quando diceva una cosa non si poteva far altro che farla, sia noi di casa che i forestieri. Le cicale stordivano, era il cuore dell’estate, lo zenith.

Le sorelle mi calarono, l’acqua era gelata, ma cercai di non darlo a vedere. Giocai un po’ con i pesci rossi, cercai di afferrare quelli che mi venivano vicini. Tutti si sorridevano fra loro con aria di complicità: la zia, lo zio Rocco il marito, Cosimo e anche lei. Mi nascondevano qualcosa? Mi stavano prendendo in giro?

Quando forse capirono che avrei potuto morire di freddo mi cacciarono, sempre con i grandi sorrisi di chi si diverte, come se mi avessero organizzato uno scherzo.

Mi diedero una manciata di chiosi (gelsi): li mangiai mentre prima la zia e poi Antonietta mi strofinavano con un asciugamano di canapa rustica: erano dolcissimi e da allora cercai sempre quel sapore e qualche volta l’ho anche trovato.

Passò qualche anno e una mattina seria seria lei mi fece mettere le mutande da bagno azzurre, di cotone leggero e andammo in piazza, dove passava la corriera delle 10 per il mare di Leuca. Salimmo, fece due biglietti, prendemmo posto. Sfiorammo uliveti, vigneti, masserie in contrada “Terra Greci” e alla fine la gente, come scossa da un fremito di sensualità, disse in coro:

Ohhhhh… il mare!”. E tutti tacquero meravigliati.

All’orizzonte c’era una distesa di acqua luccicante come brillanti sotto il sole. Sul suo viso apparve il sorriso da sfinge che conoscevo. Riflettei: il mare era quello dell’acqua gelata, davanti alla pajara (trullo a tolos) alla “Jozza”, mia mamma non poteva essersi sbagliata, né avermi raccontato bugie. E allora questo cos’era? Confrontavo le due immagini nella mente e non coincidevano. Quale era il mare vero?

Mamma, ma il mare non era quello sotto il gelso di zia Vata con i pesci rossi?”.

Lei sorrise misteriosa. Mi buttò un’occhiata silenziosa, come se l’avessi sorpresa in una posa sconveniente.

Avrei voluto chiedere ancora:

Ma allora, mamma… mi hai detto una bugia?”.

L’idea però che lei dicesse bugie mi dava un piccolo crampo allo stomaco e la scacciai subito dalla mente.

Era come mettere in dubbio la sua parola, nessuno l’aveva mai fatto. Forse aveva solo voluto scherzare, prendermi in giro, o me l’aveva detto per convincermi a fare il bagno.

Questo mare era diverso dall’altro, aveva un altro odore, più intenso, selvaggio. Scese i gradini della terza o quarta bagnalòra (buca squadrata scavata nella scogliera), quella libera, si aggrappò ai bordi, scesi anche io e feci lo stesso. L’acqua le arrivava alle spalle, che erano bianche come neve.

Bagnarola a Santa Maria di Leuca

Cabina per bagnarola a Santa Maria di Leuca

Lei uscì per prima, dopo un po’ guardò le mie mani bianche e mi chiamò:

Esci che il bagno ti è arrivato e la corriera non aspetta noi…”.

Mi strofinò delicatamente con l’asciugamano, prima la testa, poi le spalle. Mi diede pane e mortadella prendendolo dalla borsa nera bollente.

Mi fece posto affianco a lei.

Attento a non sederti sul catrame…”, sorrise.

Mangiai a piccoli bocconi.

La gente delle altre bagnalòre guardava la ragazza dalla pelle lattea e il costume bianco e celeste. Il sale mi raspava le spalle, il sole ci stava arrostendo.

Alla stessa ora Cosimo lavorava alle tajate (cave) alle “Matine” dove un giorno avrebbe portato anche me. Ho ancora addosso l’odore del carparo tagliato dalla inquadratrice, la macchina che guidava nell’inferno di pietra.

Al tramonto tornavamo a casa col Garelli nuovo. Gli zoccatùri (operai delle cave) si fermavano all’osteria di Cabbamonici a Alessano e una volta mi diede un dito di vino.

Sulla salita del “Ponte” Cosimo aiutava il motorino con robuste pedalate. Mio padre era forte come un guerriero oplita, di quelli che sconfissero i persiani a Salamina.
Anche lui aveva fatto la guerra, in Grecia (Cefalonia, Joannina), Jugoslavia (Belgrado), Ungheria…

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Un commento su “Quell’estate che mia madre mi portò al mare

  1. rdesiderio ha detto:

    racconto suggestivo e poetico

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