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E poi ci sono quelli che se ne vanno troppo presto: Salvatore Cazzato

TRICASE (Le) – “Tacciono i canti ed il sorriso è spento…” (Autunno).
Vero. Cari agli dei, se ne vanno ancora giovani, allo zenith del loro vigore, fisico e intellettuale. Ma lasciano lo stesso una traccia profonda nel territorio che li ha visti brillare con le loro passioni e generosità, e poi, come effimere stelle cadenti, spegnersi in una notte di primavera.
La parabola umana, professionale e politica di Salvatore Cazzato (Tutino di Tricase, 18 marzo 1933-20 aprile 1961) è ricostruita con l’affetto del nipote (che all’epoca ha appena due anni) verso uno zio-personaggio, da Alfredo De Giuseppe, Serafino Arti Grafiche, Tricase 2018, pp.212, s.i.p., bella lover di Eleonora De Giuseppe (in arte “La Pupazza”), “Il segno di Salvatore”, e la collaborazione dell’associazione “La Culonna”, Luigi De Giuseppe, Rafeluccio Arcella, Emilio Cazzato, Maria Antonietta Martella, Alfredo Cazzato, Antonio Baglivo, Fabrizio, Vittorio e Salvatore Cazzato, Costantino De Giuseppe, Cosimo Cortese, Roberto Baglivo, don Carmine Peluso, Virginia De Giuseppe e le aziende: Rodolfo Beneveni, Vittorio Cazzato, Vito e Anna Maria Zocco, Rocco D’Amico.
Figlio di Alfredo e Antonietta Alfarano, Cazzato ci è fatto conoscere “de visu” attraverso le tante testimonianze di chi lo ha incontrato, documenti inediti, lettere, foto.

In un tempo in cui l’oblio ci avvolge, perfido e sudicio, e viviamo solo il presente dei social, è bello, e conforta sapere che dopo mezzo secolo qualcuno è ricordato con tanto nitore e dolcezza dalla sua comunità.

E nel ricostruire una storia interrotta a soli 28 anni (il padre era morto di “spagnola” nel 1945, a 43 anni), un percorso, in controluce, si legge la storia di una terra e dei suoi genius loci, gli intellettuali figli di contadini e piccola borghesia che hanno studiato e sono pronti a essere protagonisti del loro tempo, a cambiare le sorti dei loro campanili intercettando l’ansia di nuovo del popolo di Messapia. Terre ieri predate dai baroni e dagli agrari, che sfruttavano i contadini analfabeti, svuotate poi dall’emigrazione, segnate da infinite, aspre contraddizioni, ma con una loro energia segreta, un fuoco di Prometeo, una vitalità sotto la pelle che muta quando “Tricase Porto pullulava di gioventù, seria, allegra, spensierata…”, mentre “In lontananza le luci delle lampare dei pescatori…” (come in un’opera di Toma o Ciardo).

Tutino e Cazzato (“personalità forte e decisa”) allora si trasfigurano nella metafora di una terra sospesa fra Europa e Mediterraneo, lumi e classicità, che rafforza la propria autostima e vuole uscire da vecchie schiavitù e nuove sudditanze (“Ho molta paura per il mio avvenire…”).

Ma, a leggerlo bene, è anche un format in nuce, un archetipo delle classi dirigenti in embrione, il capitale umano atteso dalle nuove, probanti sfide della modernità in un Sud in movimento, protagonista, che guarda al III millennio con una coscienza forte: sta ancora studiando (Legge a Bari), ma già lo chiamano “avvocato”, organizza il primo Liceo di Tricase (succursale del “De Giorgi” di Lecce), è attivo in politica sul fronte cattolico dopo simpatie monarchiche, un passaggio in seminario (a Oria) e l’Azione Cattolica, la passione per il teatro, da regista (“Ho ucciso mio figlio”).

“La rondinella vola e l’ombra della sera già s’avanza…” (Giovinezza).

Ma il destino amaro e crudele è in agguato. Una sera tornando da Ruffano (aveva visto l’amata Lucia), vicino Specchia la Guzzi si fermò e Salvatore la trascinò sotto la pioggia: è il 15 aprile: “Torna a casa zuppo, comincia a tossire, gli fa male un braccio” (De Giuseppe nella prefazione).

“Mi viene in mente la sera che tornò dalla gita scolastica di Castellana Grotte. Venne nella sezione della Dc a giocare a carte ma dopo poco tempo disse di non sentirsi bene. Io notai che si toccava il petto e lui disse che si era raffreddato o forse aveva mangiato qualcosa che gli aveva procurato un’indigestione. La mattina successiva apprendemmo la triste notizia” (Luigi De Giuseppe). Le pagine del suo funerale sembrano evocare un film in b/n di Pasolini, “La ricotta” o “Mamma Roma”.

“Cade la neve sulla nostra terra…” (Come una candela).

Il libro, che si avvale di un piccolo apparato fotografico molto che ha valore di documento, è stato presentato in una serata emozionante alla sala culturale di Tutino, dove i coetanei dello sfortunato avvocato sono apparsi commossi e orgogliosi di dirsi comunità. Nel nome del loro amico d’infanzia, compagno di giochi, di sogni e speranze, legati dal ricordi di giorni lontani eppure così vicini, perché disposti dall’effetto-notte del tempo all’orizzonte dell’universo che ci è toccato in sorte, dell’attimo fuggente che ci è concesso dal fato bizzarro.

Francesco Greco


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