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DESERT STORM. Quei “Displays” che riflettono i nostri mondi e anime

TRICASE (Le) – Esplicito, il messaggio è già nella cover. Due mani spuntano dalle sabbie del deserto e si protendono verso un uomo che, al posto della testa, ha una teiera.

Attorno al tè, nelle notti stellate del deserto, sotto la Via Lattea fluisce l’affabulazione, il passaggio di conoscenza, di saggezza, l’incontro, l’intimità fra uomini, popoli, etnie, credi religiosi, continenti, satelliti, universi.

Ma anche nella contro-cover: lo “scarcagnùlu” (forte vento localizzato) solleva sabbia rossa come se si annunciassero sconvolgimenti epocali, “apocalypse now”, dentro e fuori di noi.

La musica è un linguaggio immortale: dai flauti ai tamburelli, dagli Egizi, i Greci, i Romani, gli Arabi, dai misteri eleusini, i riti in onore di Dioniso e la trance, i saturnali e i baccanali, poi le corti rinascimentali, i canti gregoriani e i Balcani, fino a New Orleans, il nostro mondo contadino (cantato da Olmi ne “L’albero degli zoccoli”e Fellini in “Amarcord”), è il mantra, il mainstream, la colonna sonora della vita stessa, in ogni suo passaggio, lieto e triste, privato e collettivo.

Ciò detto, ci si accosta con curiosità e pudore all’ascolto di “Displays – Desert Session”, della Italian Saharawi Band (Anima Mundi, Otranto 2018), come se si intraprendesse un lungo e misterioso viaggio iniziatico in terre lontane (nello specifico i deserti algerini, i campi profughi Saharawi), nel cuore insonne e tormentato del tempo, degli uomini di ieri, oggi, domani, sempre.

Avviso ai naviganti: chi ha il gusto deturpato da molta musica di oggi resterà deluso. Se non la si concepisce anche come storia e sintesi dei popoli, una terra, la sua anima antica e la cultura sedimentata nel tempo, memoria e identità, non si è geneticamente predisposti alla contaminazione di questi 9 brani registrati fra Algeria e Salento (Tricase), un paio di anni fa da un’idea di Alberto Piccinni e i suoi grumi semantici e le associazioni Zig_listen to diversity, Tregiriditè e Rio de Oro, da 7 anni sospesi fra due mondi, civiltà, culture, percezioni della vita, gerarchia di valori, ecc.

E’ un lavoro che ha il sapore di una fertile provocazione se ci si mette in rapporto col momento storico in cui vede la luce, segnato da razzismi e barbarie, pulizie etniche da stato etico, esclusioni: il sonno della ragione, i mostri sono intorno a noi, in tv, sul giornale e sull’i-phad: bestie feroci, immonde (le abbiamo pure votati!). Siamo tutti coinvolti direbbe De Andrè.

Questo mondo infame che abbiamo messo su, e da cui dobbiamo subito tornare indietro, è sideralmente lontano dalla realtà dei campi profughi nel deserto, a 60 gradi, senza acqua né l’azzardo della speranza, fra uomini segnati, bambini senza futuro, talvolta disabili: hanno solo le loro ossa.

E i brani proposti – con strumentisti d’eccezione ibridati fra Algeria e Puglia – raccontano la loro storia, di ieri e d’oggi: l’amore e la nostalgia di un popolo in esilio, la dignità degli uomini che difendono il proprio popolo, la rivolta di Zemla contro l’occupazione spagnola 1970, quando fu proclamata la nascita della repubblica araba democratica saharawi (1976), la mobilitazione saharawi contro l’occupazione marocchina, la gratitudine verso i combattenti che hanno perso la vita per la patria, la promessa di un ritorno vittorioso a El Aioun, l’incitazione a una lotta per la giustizia e la dignità, una chitarra per esprimere i propri sentimenti, emozioni, sogni, utopie.

Il resto è da ascoltare, magari con tre giri di tè alla menta, osservando le bollicine nella teiera: (desertsessionbooking@gmail.com).

Francesco Greco


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