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Esiste un dialetto Salentino?

Sarebbe impossibile sostenere un’argomentazione sul dialetto salentino senza scrivere tomi e tomi enciclopedici che risulterebbero tra l’altro noiosi e probabilmente molto dispersivi.

Cerchiamo di essere quindi più sintetici fornendo alcuni punti chiave che possono aiutare  a porre le basi di quello che è l’identità linguistica di questa sub regione della Puglia composta dalla provincia di Lecce, quasi tutta quella di Brindisi e parte di quella di Taranto.

Si tratta in effetti di un’area territoriale piuttosto vasta che nel tempo ha visto alternarsi varie dominazioni, ha conosciuto varie culture e popoli e, ancora oggi, parte di questo bagaglio culturale è conservato nei vari dialetti locali. Il plurale è d’obbligo, dato che non è possibile identificare un dialetto unico bensì una moltitudine di idiomi che nella maggior parte dei casi risultano essere molto differenti anche tra comuni limitrofi.

Molti vocaboli sono di chiara derivazione spagnola e francese, radicatesi nella popolazione durante il periodo della dominazione aragonese ed angioina, di cui si possono ritrovare ancora alcune tracce in quello che resta delle dimore signorili, i numerosi castelli e le torri costiere erette in difesa dai “nemici del mare”. Proprio a causa delle numerose invasioni dai popoli d’oltremare, che si sono intervallate nel corso dei secoli, il Salento deve  la sua “fobia” nei confronti dei pirati saraceni i quali causarono la distruzione di numerosi comuni.

Tra le battaglie più cruente che il salento ha dovuto sostenere contro il nemico se ne possono ricordare sicuramente due:  quella che vide la distruzione della città di Vereto, nell’877, antichissimo centro dalla cui scomparsa orginarono poi numerosi casali che divennero molti degli attuali comuni e quella, forse tristemente più famosa, della presa di Otranto del 1480, durante la quale la città venne distrutta, ad eccezione della cattedrale dell’Annunziata, ed oltre 800 uomini vennero martirizzati sul colle della Minerva. Molte donne vennero violentate e molte di queste portarono alla luce una nuove progenie che si mescolò alla popolazione locale, per essere poi con il tempo riconosciuta con l’appellativo “figghi te i Turchi”, ossia “Figli dei Turchi”.

Altre ondate di profughi  saraceni non bellicosi si susseguirono con il tempo, contribuendo ad arricchire la popolazione nostrana, come si suppone sia avvenuto ad esempio per il comune di Collepasso, i cui abitanti sono sopranominati “Saracini“, Saraceni. Probabilmente nel dialetto di questo paese potremmo incontrare dei vocabili o dei termini di derivazione turca o araba. Discorso analogo vale per Alezio, dove invece il soprannome dei suoi abitanti, “Piciuttari“, ci potrebbe far pensare ad un legame con il dialetto siciliano. Non solo gli avvenimenti storici quindi, ma anche la cosiddette “nciurite” (le nomee) possono aiutarci a scoprire e recuperare informazioni aggiuntive in merito ai numerosi dialetti salentini.

Anche Svevi, Normanni, Messapi, Romani e Bizantini si sono alternati nel Salento. Ognuno in maniera decisamente diversa degli altri e per i più svariati motivi: chi è capitato in questa terra in maniera  casuale, chi per espandere i propri domini e chi per trovare riparo da oppressioni e persecuzioni. Anche in questo caso sono numerose le testimonianze che ne attestano l’avvicendarsi di queste diverse culture e popolazioni, tra cui numerosi resti di imponenti mura messapiche e decine di cripte affrescate. A questi si sono poi aggiunte con il tempo numerse influenze da parte di popolazioni greche, che insediandosi stabilmente nelle terre salentine hanno fondato nove piccoli “enclavi”, che hanno tutt’ora conservato tradizioni e lingua differenti da quelle del resto del Salento, la Grecìa Salentina. In questi comuni, all’italiano e ad un dialetto più o meno simile, con le differenze esposte precedentemente, ai comuni limitrofi si associa un ulteriore lingua, il griko, l’ennesima forma dialettale simile in molti vocabili alla lingua greca. Sfortunatamente è una lingua che sta via via scomparendo e solo alcuni di questi nove comuni (Calimera, Castrigano dei Greci, Corigliano, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto, Sternatia, Zollino), soprattutto nella popolazione più anziana, si conserva ancora questa lingua tradizionale che ha contribuito al riconoscimento della Grecìa Salentina del titolo di minoranza etnico-linguistica. Questa lingua è ormai utilizzata esclusivamente quando si vuole interloquire con altri coetanei avendo la certezza che gli esponenti più giovani della popolazione non capiranno nemmeno una parola, se non un bonario “Kali nitta” – buona notte – che i nonni augurano ai propri nipoti nel momento di rimboccare le coperte.

Ad ogni modo,  la diffusione di parole di stampo greco è avvenuta in maniera più o meno uniforme su tutto il territorio, soprattutto quelle legate alla materia gastronomica. Parte delle ricette tradizionali sono proprio di origine greca, non c’è quindi da stupirsi se termini ed espressioni ad esse legate si siano collocate perfettamente nel dialetto.

La maggiore espressione della cultura grika si manifesta nei canti tipici delle festività natalizie, le cosìddette strine, e quelli della passione di Cristo nel periodo pasquale. Alcuni di questi canti sono ancora sopravvissuti nelle parole, nella melodia e nella lingua nella versione originale.

L’aspetto del canto era sentito in maniera piuttosto simile da tutti i comuni salentini, nel quale vedevano una forma di sfogo e libertà, un modo semplice e alla portata di tutti per mitigare la fatica di un’estenuante giornata di lavoro nei campi. Tramite il canto era possibile esprimere liberamente i problemi delle classi popolari, del lavoro, della povertà e si poteva di certo contare su un’ottima compagnia.

Ma se i canti sono destinati ad essere dimenticati, in una società nella quale per ovvie ragioni non è possibile cantare su tutti i posti di lavoro, i proverbi sono invece destinati a sopravvivere ed ad essere simpaticamente o tristemente associati a numerosi fatti e situazioni della quotidianità. La sconfinata collezione di proverbi copre l’intera casistica di eventi che pottrebbero succedersi in una qualsiasi giornata. Se magari qualcuno vi sentirà discutere con il vostro capo mentre vi impone ordini irragionevoli o privi di alcun senso, potreste sentirvi dire “ttacca lu ciucciu addhu vole u patrunu“, (lega l’asino dove vuole il padrone),  per descrivere una situazione nella quale, anche se le motivazioni potrebbero risultare immotivate, bisogna comunque sottostare al volere del proprietario dell’asino, ossia il vostro interlocutore, a cui spetta decidere del destino del proprio animale da soma, ossia voi.

Allo stesso modo si potrebbero argomentare numerosissimi altri proverbi, come da esempio “cchiu forte chiove, cchiu ‘nprima scampa” (più forte piove, prima smetterà), per manifestare una sorta di speranza nel vedere tornare il bel tempo in una giornata non proprio piacevole: condizioni meteo avverse avrebbero impedito di lavorare i campi e non ricevere quindi “la sciurnata“, ossia il compenso in denaro che spetta per ogni giornata lavorativa.

Di solito, soprattutto tra i più anziani, è sovente sentir pronunciare un proverbio subito dopo una frase profetica….” tanivane ragione l’antichi” (avevano ragione gli antenati), quasi a voler dimostrare o giustificare quanto un proverbio possa affermare.

Soprannomi, proverbi, canti, migrazioni, invasioni, dominazioni, tutto questo ha contribuito all’evoluzione e diffusione di numerosi varianti del dialetto salentino, tanto da costituire lingue in alcuni versi molto differenti anche tra individui che abitano ad una manciata di chilometri di distanza.

Da tempo si discute sulla necessità di introdurre l’insegnamento del dialetto all’interno delle scuole, dato che sempre più giovani si palesano ignoranti in materia favorendone in questo modo la scomparsa. Perdere questa diversità significherebbe dover rinunciare in qualche modo alla propria cultura ma, ancor di più, sradicare le radici delle proprie origini.

Marco Piccinni


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